La gabbia dorata del filologo

 
 
 
La gabbia dorata del filologo:
 

la corradicalità tra spinte centrifughe ed etimologia

 

Francesca Pizzimenti  (Velvet)

 

Alcuni mesi sono trascorsi da quando, su queste pagine, sono apparse alcune considerazioni relative alla questione dell’equipollenza – o meglio della corradicalità – nell’economia risolutiva dei giochi enigmistici, rebus e crittografie in primis. In quella sede si osservava come “si ha equipollenza […] quando, nel passaggio dalla prima lettura alla soluzione del rebus, si riscontra una parità di forze- e di significato-tra un termine di partenza e un altro che da esso scaturisce. Tale forza viene a coincidere con il grado di corradicalità tra le parti: due termini sono corradicali quando possiedono una etimologia comune che, alla stregua della radice di un albero, li sostenta e li supporta, permettendone nel contempo una differenziazione”.
Dal punto di vista strettamente pratico si osservava altresì come l’equipollenza non permetta al gioco di funzionare, poiché tra prima lettura e frase risolutiva vi sarebbe tautologia, venendo a mancare il salto, lo scarto da cui deve scaturire la soluzione stessa. Ben diverso è il caso di tutti quei termini che, pur imparentati tra loro, hanno subìto nel corso del tempo una differenziazione semantica tale da poter essere ritenuti ormai autonomi e indipendenti: “se ormai l’uso ha decretato la totale divaricazione dei significati di due termini pur in origine corradicali o addirittura coincidenti, ciò significa che dal punto di vista semantico essi si devono ritenere due entità ormai indipendenti e quindi permettono a un gioco di funzionare al meglio anche dal punto di vista estetico” e a suggello di quanto affermato si presentavano le parole di Edward Sapir, secondo le quali “la lingua si muove nel tempo in una corrente da lei stessa creata. Ha un’evoluzione […]. Nulla è perfettamente immobile. Ogni parola, ogni elemento grammaticale, ogni locuzione, ogni suono e ogni accento hanno una configurazione che cambia lentamente modellati da quel movimento invisibile e impersonale che è la vita stessa della lingua”.

Mette bene a fuoco i termini della questione Riccardo Ambrosini quando afferma che

 
In una concezione sistematica della lingua occorre anzitutto distinguere i rapporti sintagmatici da quelli paradigmatici che sussistono tra le unità linguistiche. I primi […] riguardano le modalità con le quali si succedono […] le unità significative scelte dal parlante: tra queste unità nascono relazioni, variazioni, combinazioni che esse non hanno nella loro astratta funzione paradigmatica, cioè nella loro mera potenzialità.

 

In questo processo l’analogia -vista sotto due aspetti- svolge un ruolo centrale: la lingua viene a trovarsi in mezzo al campo d’azione di due forze contrapposte che lo studioso così definisce:

 

a) un[a] passiv[a], che accoglie e generalizza certi schemi, certi paradigmi per formare qualcosa di simile a ciò che già esiste […];
b) un aspetto attivo, che utilizza gli elementi paradigmatici al di là delle proprie caratteristiche funzionali accettate dall’uso linguistico e registrate in grammatiche e vocabolari, per inserirli in nuovi processi espressivi, in catene e in successioni non sempre prevedibili.
 
Questo è il territorio della poesia. Le due forze, quella attiva e la passiva, sono quelle che modellano e plasmano demiurgicamente la materia duttile di cui è costituita la lingua, che non si può ritenere mai statica e sempre identica, ma in perenne cambiamento:
 
La lingua ci appare […] come una costruzione continua che non può mai rinnegare il suo passato e, tramite azioni analogiche «passive»-imposte dalla struttura- e azioni analogiche «attive»- imposte dalla necessità e dalla volontà espressiva- si evolve con finalità la cui consapevolezza è, almeno a volte, evidente, altre soltanto apparente.
 
Questo movimento dà modo alla lingua di generare e ri-generare se stessa, benché a tale spinta facciano da contraltare le forze centripete della glottologia e dell’etimologia che tentano di tenerla saldamente legata alle proprie origini. A tale proposito Ambrosini riconosce
 
Come la glottologia abbia necessariamente due dimensioni: una comparativo-ricostruttiva e una comparativo-storica, che sono tra loro strettamente collegate […]. Il confronto permette, infatti, di separare e di valutare per la funzione che hanno […] suoni, forme e parole, e di assegnarli a questa o quella tradizione linguistica. In tal modo si comprende come e perché è composta una lingua, che non è mai «pura» […], non è mai unitaria, come non è mai unitaria ma è sempre «mista» la composizione etnica di una nazione, e si comprende che la lingua è fenomeno culturale, non collegato in alcun modo con la razza prevalente di una determinata comunità, ma soltanto con la diffusione di un modo di esprimersi fornito di prestigio storicamente determinato.
 
Pur riconoscendo da un lato il fondamento scientifico e l’autorevolezza delle discipline glotto-filologiche, queste osservazioni dall’altro ne sottolineano l’intrinseco pericolo di trasformarsi in pastoie che non permettono alla lingua stessa di muoversi e di andare oltre le schematizzazioni. Per uscire da questa situazione di stallo ci soccorrono le parole cui Giacomo Devoto affida l’Avvertenza alla prima edizione dell’Avviamento alla etimologia italiana.
 
il lettore è immobilizzato in una specie di prigione. È quella della filologia romanza, scienza tra le più ricche e varie, ma anche fra le più tiranniche, chiusa nel quadro tradizionale della parentela genealogica, che ha nel latino il suo scudo e il suo limite.
 
Il modello linguistico disegnato e offerto dalle scienze sopraccitate risulta chimerico se confrontato con il reale esito e con l’impatto pragmatico della lingua d’uso sui parlanti:
 
L’etimologia in sé non significa niente: è un fatto erudito, per il quale una parola, staccatasi a suo tempo da un’altra parola, e per ciò stesso dimentica dell’antico legame, viene ricondotta alla sua origine grazie a un procedimento di «ricerca della paternità». Se noi ci rendessimo conto o avessimo sempre presente che «cattivo» significava un tempo […] «prigioniero (del diavolo)», noi falseremmo il significato della parola italiana, oppure le assegneremmo, nel quadro del lessico italiano, un campo di azione diverso da quello che le è proprio.
 
È proprio a questo punto che le osservazioni si fanno aderenti alle problematiche connesse con la corradicalità e l’equipollenza nei giochi enigmistici: a onta della parentela etimologica, due termini vengono sentiti non corradicali nel momento in cui i loro significati si sono divaricati per sempre. Procedendo rapidamente in maniera tassonomica Devoto esamina le quattro categorie in cui si suddivide il nostro patrimonio lessicale: le prime due, di evidente e riconoscibile derivazione, sono le onomatopee e i prestiti, questi ultimi provenienti da altre lingue a seconda delle circostanze e del momento storico; poi si giunge alle classificazioni che più ci riguardano:
 
La terza categoria è costituita dalla massa dei latinismi che, a partire dall’età di Dante, hanno fornito al nascente volgare e poi alla lingua letteraria appena costituita quei termini di cui, per la ristrettezza degli orizzonti agricolo-artigianali-parrocchiali durante l’alto medio evo, il volgare non aveva avuto né possibilità né necessità di disporre. Questi latinismi conservati nei libri sono relativamente fedeli rispetto ai modelli: essi sono indicati in questa forma: ABACO, dal lat. abăcus. Anche in questo caso la parola progenitrice è identificata.
 
 
Adesso si tratta di esaminare l’ultimo gruppo di parole, quello più consistente e diversificato:
 
la quarta massa è data dalle parole latine che sono state trasmesse da una generazione all’altra, senza nessuna interruzione […]. È di fronte a questa quarta categoria di parole che la uscita dalla prigione romanistica è indispensabile.
 
Diversamente si resta avviluppati nel nodo di un circolo vizioso:
 
Per uscire dalla prigione, il lettore deve rendersi conto di parecchi fatti. Prima di tutto deve essere chiara la nozione del latino quale risultato di una mescolanza di parole «mediterranee» trovate sul posto e di parole «indoeuropee» venute in Italia da regioni dell’Europa centro-orientale in diverse riprese.
 
Da tale coacervo di idiomi, mescidato grazie ad adstrati e substrati dovuti a molteplici ragioni storiche e geografiche, scaturisce una lingua latina ben lontana dal modello classico ciceroniano codificato rigidamente dalla scuola:
 
da questa disposizione il lettore ricava la immagine plastica di una nebulosa primitiva, che comprende da una parte il tesoro lessicale indoeuropeo e dall’altra quello mediterraneo. A questa fase succede un processo di condensazione che conduce alla strettoia del latino confinato, nel periodo delle origini, in un territorio ristrettissimo intorno a Roma. Si ha poi un’altra nebulosa, quella del latino diffuso in tutto il mondo di occidente. Ad esso segue la nuova strettoia, quella del fiorentino, cui finalmente succede la normalizzazione italiana, su un’area più ristretta di quella latina, ma assai più ampia della fiorentina.
 
Alla stregua di un magma incandescente la lingua si presenta metamorfica e in continuo movimento: è impossibile etichettarla secondo rigidi schemi preconfezionati, pena l’incapacità di considerare i fenomeni linguistici quali essi sono, cioè prodotto della società dei parlanti, mai identica a se stessa e fonte inesauribile di innovazioni. Ritenere due termini imparentati solo su base etimologica -considerandoli quindi corradicali o equipollenti- senza valutarne l’uso e il significato sulla bocca dei parlanti è un presupposto miope e fortemente limitante che non permette di vedere nella natura stessa della lingua la fonte primaria cui attingere per dare nuova linfa alla creatività, e non solo a quella meramamente letteraria: il futuro dell’enigmistica classica passa proprio per quella strada.

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