Appunti sull’immagine nel rebus

APPUNTI SULL’IMMAGINE NEL REBUS
di Enrico Viceconte

Sulla Sibilla ho disegnato centinaia di rebus e non ho mai avuto rimostranze per disegni non chiari o chiavi rovinate da vignette sbagliate. Eppure, non appena terminavo un disegno, restava in me la sensazione che c’era qualcosa di sbagliato, che avevo, in qualche modo, tradito lo stile del rebus.

Chiamavo ‘stile’ certe cose che col tempo ho definito meglio e di cui parlerò in questo articolo.

Il modello è sulla Settimana Enigmistica, nei disegni di Maria Brighenti. Ero consapevole che per fare un vero rebus si dovesse imitare quello stile, ma non sapevo cosa quello stile fosse e tanto meno sapevo imitarlo. Il mistero di quei disegni resisteva al tentativo di scomposizione analitica del falsario.

Alla Brighella dedico queste riflessioni che non pretendono di chiarire come ‘funziona’ questo particolare sistema visivo-verbale, ma che vogliono essere la testimonianza di un disegnatore dilettante sulla non ovvietà della creazione di una vignetta per rebus. Confesso di aver cominciato molto tardi ad amare lo stile grafico dei rebus della Settimana. Ero troppo intriso di modernismo per apprezzare quei tratteggi, quegli sfondi agresti con casette e alberelli. Da poco, forse per l’aria postmoderna che si re-spira, mi accorgo come quel sapore di vecchio sillabario sfidi i professionisti della scrittura verbo visiva delle agenzie pubblicitarie. Nell’epoca dell’immagine graficizzata e solarizzata, dei retini tipografici, del comic, del riporto fotografico, il gusto rétro di quel segno pub suscitare tenerezza, ma solo a chi si pone di fronte a quelle immagini con atteggiamento di nostalgica contemplazione. Chi tentasse di indagare sulle leggi del rebus, scoprirebbe la costruzione rigorosa che regge quello stile inconfondibile.

Il segno della Brighella rifiuta il virtuosismo, il caricaturale, il bozzettismo, le suggestioni e gli stilemi esotici; più simile alle carte napoletane che alle figure giapponesi, più al manuale che al fumetto. Si confrontino i disegni della Brighella con quelli del suo predecessore Leone, che pubblicò fino al 1950 circa. Pur nella continuità della loro opera, con la Brighella si’ verifica una rivoluzione che porta al rebus moderno.

Dove Leone avrebbe scelto l’inquadratura ardita dal basso o dall’alto, il dinamismo, I ‘intreccio floreale art-déco, la Brighella sceglie la compostezza, la staticità, la Separazione delle masse, il nitore delle forrne. La Brighella sfugge il facile impressionismo, e alle mode artistiche e culturali, attraversa le avanguardie mantenendosi coerente a un suo discorso che non può che essere differente da quello dell’arte figurativa. La Brighella sfugge alle tentazioni metafisiche alla De Chirico e i magritrismi che paiono inevitabili a chi deve comporre gli strani oggetti dei rebus, evita gli esercizi plastici alla Sironi o alla Morandi a cui pure inviterebbero quelle figure statiche e anonime o quegli oggetti disposti sui tavoli. La Brighella riesce a sottrarsi con grazia e naturalezza al kitsch, alla presunzione, alla retorica, al decorativismo. Con lei il rebus acquista una sua forma specifica e rigorosa che lo distingue dall’illustrazione e dal fregio decorativo, cioè da tutto quello che su una rivista viene riprodotto per connotare bellezza ed eleganza.

Il rebus rifiuta l’eleganza che, legata a un flusso di forme e di gusti che si modificano, collocano il disegno in una distensione temporale. Se il disegno decorativo cerca di distillare la bellezza dalle cose, trascurandone l’essenza, il rebus distilla l’essenza delle cose scartando la bellezza e tutto ciò che è soggettivo. A gioco risolto sarà eventualmente la chiave, il congegno, che stupirà il solutore; l’immagine resterà in disparte, per essere, eventualmente, amata in segreto da qualche sensibile e nostalgico solutore.

Ho conosciuto, in casa Bartezzaghi, i disegni “privati” di Maria Brighenti e non mi sono stupito di vedere come, libera dalle geometrie concettuali del rebus, prorompesse la sensibilità formale e la cultura visiva dell’artista.

L’illustrazione del rebus è una tecnica che, come cercherò di dimostrare, è molto rigida ma che la Brighella interpreta senza far trasparire alcuno sforzo. La Brighella è forse la disegnatrice più prolifica del mondo. Da anni migliaia e migliaia di rebus sono comparsi sulle pagine della Settimana. Se li moltiplichiamo per il numero dei lettori della rivista, possiamo capire quanto quel segno caratteristico si sia cumulato nel patrimonio visivo degli italiani. Eppure nessuno ne parla mai. Ebbene questi appunti sono un tentativo di colmare questo vuoto.

REBUS, SOGNO E PENSIERO

Provate ad entrare nella vignetta di un rebus, ad abitare la scena tridimensionale che ha creato la Brighella. Sentirete di trovarvi in uno spazio Onirico. Mi piace pensare che l’effetto sia da attribuire a cause molto profonde. Alcune cose, nel rebus come nel sogno, sono inspiegabilmente presenti, come estratte a caso da un repertorio di immagini; personaggi sono intenti, con una concentrazione spropositata, a compiere azioni stravaganti e immotivate. Ma, quanto più inspiegabili sono quelle presenze e quelle azioni, tanto più senti che quella eccezionalità cela la chiave del gioco (del sogno). Tanto più sembra casuale una cosa, tanto più essa è necessaria. Lo spaesamento ti rende consapevole che una meccanica profonda sta turbando la tua immagine del mondo e le tue a-spettative, deformando e ricomponendo a pezzi la realtà visiva. Quanto più il tutto è strano, tanto maggiore sarà il contenuto di informazione allo stato criptico dell’illustra-zione (e del sogno?).

L’ “effetto sogno” è forse dovuto anche al trattamento particolare che i nostri appa-rati mentali dedicano al rebus. L’immagine del rebus ha, nella mente, un percorso e una sorte diversa dagli sciami di stimolazioni visive della civiltà dell’immagine in cui viviamo. Lo spostamento progressivo dalla parola all’icona del nostro universo percettivo fotografico e televisivo ha, nel rebus, un riflusso anomalo dall’immagine alla parola: non è la parola ad essere convertita in immagine, ma è l’immagine che viene forzata a diventare parola.

La mente tratta in maniera molto differente, addirittura con due emisferi distinti del cervello, le immagini e le parole. Dove il pensiero si fa ragionamento complesso prevale la parola, dove è richiesta una immediata, analogica risposta al mondo circostante si pensa per immagini. Ma anche una parola letta, udita o pensata non può non essere legata a un’immagine, a un lampo visivo. La parola, per quanto astratta, ha sempre un riverbero visivo più o meno motivato, a volte legato al semplice suono (o alla grafia).

Se penso la parola “maresciallo” compare qualcosa di indefinibile che ha a che fare col mare e con lo scialle. Se penso “dialetto” vedo un letto o un diavoletto. Se penso “marachella” vedo ancora il mare e una chela e una caramella incartata. La mente dunque compone dei primitivi rebus, incastri ed anagrammi? Chi ricorda il modo in cui, da piccoli, si tenevano a mente le poesie e le preghiere? Il suono contava più del significato e l’immagine evocata più del suono. La sequenza delle immagini conduceva i fonemi a ricomporsi in parole e le parole in frasi come accade quando si “rilegge” un rebus risolto. Il piacere del rebus è forse il riaffiorare del flusso intrecciato di parole ed immagini, il materializzarsi di quelle figure fantasmatiche che riverberano le parole nella continua e nascosta cooperazione tra gli emisferi cerebrali.

L’effetto di un buon rebus è di metafisica irrealtà. Un rebus ben disegnato non copia niente di reale. Esistono, nella realtà, delle case, ciascuna col proprio stile architettonico, con le proprie crepe, con o senza i fiori sui davanzali. La casa del rebus è, invece, inequivocabilmente casa senza essere una particolare casa. Cosi il tavolo, la sedia, il cane.

Una carrozza riesce ad essere tutte le carrozze e non diventa un landò o una berlina se non lo richiede la chiave risolutiva. La tecnica della Brighella è insuperata nella resa della magica genericità dell’immagine. Senza ricorrere a schematizzazioni grafiche o immagini impressionistiche, la Brighella, con un segno da vecchio abbecedario e senza il sacrilegio dei dettagli, raggiunge il controllo assoluto del grado di genericità dell’immagine. Questa tecnica, unita a un istinto straordinario, riesce a creare un universo parallelo, un mondo iperuranio disegnato a china in cui la cosa “in sé”, l’idea della cosa, diventa tangibile. Riuscire a capire come fa la Brighella a disegnare cose che partecipano della stessa natura indefinita dei sogni e dei pensieri visivi potrebbe essere una chiave per penetrare i segreti di molti processi mentali.

IL PARTICOLARE E IL GENERICO

Nella mente le immagini delle cose non sono archiviate come tante fotografie; sarebbe impossibile conservare così tutti i ricordi di una vita. Proviamo a ricordare un luogo famoso: la basilica di San Pietro. Ci sembra di aver pescato una nitida cartolina della mente; ma… proviamo a contare le colonne della facciata o le statue o i finestroni o gli orologi (ci sono orologi?). La fotografia pare dissolversi nel momento in cui vogliamo analizzarla. Se conosciamo bene la storia dell’arte ci viene più facile ricordare il dato numerico che le colonne sono otto, piuttosto che contarle su quel fantasma di cartolina mentale. Fate lo stesso esperimento descrivendo il palazzo di fronte senza guardarlo, o la faccia di un amico.

Come è fatta una chiesa? Come è fatto un cane? Se avessimo in testa lo schedario fotografico di tutti i cani visti, come potremmo riconoscere come cani i cani delle razze più strane, o quelli disegnati dai bambini?

Il cane di un rebus riesce ad essere, nella nostra mente, come quell’immagine che balena quando pensiamo una frase del tipo: “il cane è il miglior amico dell’uomo”. Se il passaggio dai segni sulla carta alle “idee” è legato a un codice, il rebus della Settimana Enigmistica è l’espressione di una perfetta padronanza di questo codice e dei processi mentali percettivi e culturali sui quali è istituito.

Quali proprietà di una cosa è necessario e sufficiente riprodurre perché questa cosa possa entrare in una chiave risolutiva? La bravura di Maria Brighenti consiste nella capacità di risolvere con grande coerenza stilistica questo problema.

Quando una proprietà di una cosa o di una persona non serve alla chiave, magicamente scompare. Le figure umane generiche del rebus si assomigliano a quelle che vedo quando penso al proverbio: “chi va con Io zoppo impara a zoppicare”. Come immaginate quel tale che va con lo zoppo? Certo non lo immaginate vestito da militare o da antico romano. E poi, chi vi ha obbligato a immaginare chi va con lo zoppo come un uomo? Certo non la grammatica. E se fosse una donna?

Dall’immagme generica si sfugge solo per eccezione. La genericità si distilla dalla realtà dando vita a un personaggetto di sesso maschile dai lineamenti neutri e “regolari”, dal vestito che non segue nessuna moda, coi capelli né lunghi né corti, senza occhiali né baffi, né allegro, né triste. Come avete immaginato lo zoppo? Probabilmente come lo stesso personaggio di prima con l’aggiunta di alcuni tratti: un bastone, una particolare positura del corpo. Come avete immaginato il paesaggio, se l’avete immaginato? Certo non avete ambientato la scena sotto la torre Eiffel o sul ponte di una nave. Come sanno essere deliziosamente generici gli alberi, i paesini, le montagne che fanno da sfondo ai rebus, luoghi incantati che sanno esserci e non esserci nello stesso tempo!

Per venir fuori dall’incantesimo proveremo a smontare il meccanismo.

Un oggetto pensato è un agglomerato di proprietà. Alcune sono mutuamente opposte (biondo-bruno, nudo-vestito). Il rebus mette in luce la natura relazionale della percezione come processo cognitivo: il tratto distintivo biondo è percepito e considerato in un contesto di bruni (presenti nel mondo della vignetta) e in relazione ad essi, la femminilità è percepita in relazione alla mascolinità, l’essere dentro rispetto all’essere fuori, l’essere nudi in relazione a un mondo in cui si è vestiti. La necessità di portare il solutore dall’immagine alla parola costringe il disegnatore di rebus a percorrere all’incontrario il processo di lettura di un’immagine. Se chi guarda estrae dall’immagine quello che gli serve individuando, tra infiniti tratti, quelli significativi per l’uso che ne deve fare, il disegnatore di rebus deve sapere quali tratti fornire al solutore e solo quelli. Si capisce come la figura di un rebus, ad esempio una persona, si sviluppi per addizione di tratti intorno a quella figura generica di cui parlavamo. Tale arricchimento si svolge su diversi piani: sul piano strettamente percettivo (relazioni spaziali e dimensionali), sul piano culturale (codici iconologici e segni convenzionali).

All’intersezione di questi due piani esistono, e vengono sfruttati dal disegnatore, i codici cinesici, cioè le espressioni del volto e del corpo umano. Il rebus può creare quelle figure base molto generiche grazie alla capacità dell’autore di cogliere, di tali oggetti, la forma culturalmente più comune e riconoscibile. Un monaco sarà certamente un benedettino e non un monaco buddista. Se dal punto di vista linguistico è lecito rappresentare il monaco buddista, non lo è altrettanto dal punto di vista enigmistico. Un re sarà dotato di corona ed ermellino, il pittore avrà il basco e la tavolozza, colei che cura sarà un’infermiera con camice bianco.

L’enciclopedia iconologica alla quale si fa appello è quella di pronto uso per il numero più vasto possibile di lettori. Solo cosi è possibile identificare univocamente l’eccezione che genera la frase risolutiva. L’eccezione, quando non serve, è bandita. Tanto più l’iconografia è sclerotizzata tanto più puro è il ragionamento enigmistico. Il controllo del grado di genericità dell’immagine, in cui eccelle la Brighella, consiste quindi in una co-operazione disegnatore-solutore basata sulla perfetta conoscenza dell’enciclopedia visiva del pubblico, di quel patrimonio comune sedimentato col tempo. Mi pare indubbio che questo patrimonio venga poi stabilizzato anche attraverso lo stesso rebus (che tende a proporre sempre il re con l’ermellino, per intenderci) e che quindi la convenzionalizzazione delle immagini riguardi un pubblico circoscritto anche se vasto, ma non si può negare al disegno del rebus la capacità di essere una sorta di grado zero dell’immagine per l’italiano medio.

IL GRADO ZERO DELL’IMMAGINE

Con questa espressione, liberamente copiata dal “grado zero della scrittura” dei linguisti, voglio intendere l’assenza completa di connotazioni che presenta il disegno del rebus e il perfetto dominio del contenuto informativo dell’immagine. Come la lingua dei proverbi (chi va con lo zoppo, ecc.) e quella dei sussidiari (Pierino mangia la mela) può rappresentare il grado zero della scrittura, così quelle figure che si formano nella mente a rappresentare lo zoppo o Pierino possono considerarsi immagini di grado zero. Si potrebbe obiettare che una foto realistica, non passando attraverso uno stile, può definirsi più esattamente di grado zero rispetto a un disegno a china, ma questa obiezione può essere facilmente confutata. I particolari, colti casualmente dall’obiettivo, possono scatenare nell’osservatore catene di emozioni, inferenze, ricordi personali. Invece nella vignetta del rebus una rigida tecnica previene queste “fughe” anzi, costringe il lettore a una convergenza sul soggetto. Questa tecnica distingue il rebus da qualunque disegno o dipinto creato con finalità estetiche. Il disegno del rebus invita il lettore a disporsi, nei suoi confronti, con un atteggiamento diverso da quello estetico, in parte scoraggiandolo in parte stabilendo una convenzione cooperativa.

Un calice dipinto viene generalmente colto come un continuo di proprietà legate alle sue proprietà formali, alla simbolica dei calici, al contesto del quadro, al contesto storico culturale del pittore, ecc. Non importa poi che a quella figura corrisponda biunivocamente un terrnine linguistico, essa è un continuo che va dal bicchiere alla coppa, alta tazza. Nel rebus tutto questo è proibito. Il continuo deve rapprendersi in un cristallo-parola che sia univocamente calice. Per ottenere questo risultato il disegnatore non può che operare coi segni. Indizi disposti ad arte portano il solutore sulla pista della decodifica. L’efficacia e la convergenza dei segni deriva da quanto il disegnatore conosce il solutore. Se, ad esempio, si presuppone che il solutore usi la parola calice riferendosi soprattutto a quello dell’Eucaristia i segni disposti nella vignetta individueranno l’interno di una chiesa o un altare.

A differenza delle segnaletiche (segnali stradali, ad es.) della simbolica scientifica (componenti elettronici e meccanici, simboli fisici e meteorologici), della araldica (stemmi), in cui un’immagine semplice sta per un’entità o un concetto complesso, il disegno del rebus è un’immagine spesso complessa che sta per qualcosa di semplice come una parola o una frase banale che fa parte della chiave. Nel caso dei Segnali e dei simboli grafici essi rappresentano una discretizzazione di un continuo. Nel caso dei rebus il processo è inverso: è il continuo del disegno che si discretizza in una espressione linguistica. L’uso particolarissimo dell ‘immagine che si fa nel rebus rende questo gioco lontanamente somigliante a una scrittura geroglifica.

Per quanto si possa studiare il fenomeno rebus con gli strumenti analitici più vari, esso resterà sempre un caso particolare e sfuggente di espressione, ma, come tale, potrebbe essere capace di stimolare idee nuove nei campi della psicologia della percezione, della semiotica, dell’iconologia, della linguistica e della semantica.

Mi auguro che qualcuno raccolga la sfida e intraprenda uno studio su basi rigorose del rebus, sfruttando l’immenso patrimonio dei disegni della Settimana Enigmistica e di Maria Brighenti.

Enrico Viceconte

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