L’equipollenza

In questa sede mi occuperò esclusivamente dell’equipollenza nelle crittografie, nei giochi continuativi e nei rebus. In tali settori, due vocaboli che hanno la stessa radice etimologica sono da considerarsi equipollenti? In enigmistica classica ci sono due scuole di pensiero:

1) intransigente. Se due termini sono corradicali, il gioco si boccia senza dubbi, anche se si tratta di due parole che hanno ormai assunto due significati profondamente diversi, come il classico caso di «arma» e «armadio». A ogni minimo dubbio bisogna consultare il dizionario etimologico;

2) aperturista. Si considera se oggi, a distanza di tempo, due termini che pure hanno stesso etimo abbiano assunto due significati diversi. Non c’è bisogno di aprire il dizionario etimologico, basta la nostra percezione, adeguatamente affinata dalla considerazione delle prassi enigmistiche e dell’uso linguistico odierno. Oggi l’armadio non ha più nulla a che fare con le armi: nell’armadio nessuna persona al mondo stipa le armi, bensì la biancheria e i capi di vestiario. Si tratta quindi di due vocaboli non equipollenti.

La Sibilla è sempre stata in linea con quest’ultima opinione, ma oggi mi sembra opportuno spiegare anche il perché. Il nostro convincimento era dettato unicamente dalla logica e da un nostro modus operandi che è sempre stato condiviso dalla grandissima parte dei lettori e solutori. Non molti anni fa mi capitò fra le mani l’«Avviamento alla etimologia italiana» di Giacomo Devoto, nel quale l’autore spiega che l’etimologia, in fondo, serve solo per lo studio riguardante la nascita delle parole e può accadere, con il trascorrere degli anni e dei secoli, che il loro significato cambi tanto che i parlanti non percepiscano più che si tratta di due parole etimologicamente legate. Ascoltiamo le testuali parole di Devoto:

«L’etimologia in sé non significa niente: è un fatto erudito, per il quale una parola, staccatasi a suo tempo da un’altra parola, e per ciò stesso dimentica dell’antico legame, viene ricondotta alla sua origine grazie a un procedimento di «ricerca della paternità». Se noi ci rendessimo conto o avessimo sempre presente che «cattivo» significava un tempo, «prigioniero (del diavolo)» noi falseremmo il significato della parola italiana, oppure le assegneremmo, nel quadro del lessico italiano, un campo di azione diverso da quello che le è proprio (…) Ammesso che l’etimologia insegni cose non vere rispetto ai valori attuali, essa deve proporsi di ricostruire situazioni proprie di altri tempi, con caratteri formali fonetici e morfologici diversi dai valori attuali, con valori semantici propri di questi altri tempi. Solo così la parola diventa fonte di storia; solo così l’etimologia diventa cosa importante. (…) Una seconda esigenza è quella di dare il rilievo dovuto, oltre che alle parole che si distaccano e «nascono», anche a quelle che si incrociano e si «sposano»: in italiano «consumare un matrimonio» e «consumare un patrimonio» sembrano impiegare la stessa parola. Ma un tempo non era così, perché i due «consumare» rispecchiano nel primo caso il latino consummare e nel secondo il latino consumˇere. Lo studio degli incroci è essenziale per tener conto, accanto alla tradizionale etimologia proiettata nella storia, delle esigenze dell’inquadramento lessicale, insito nella cosiddetta etimologia statica o vivente (1).

È dello stesso avviso un altro linguista, Edoardo Lombardi Vallauri che in «Parlare l’Italiano» scrive: «Con ogni probabilità anche il senso di ‘denaro’ deriva dall’idea di una pluralità di piccoli elementi tutti uguali, grani appunto, come sono le monete e come lo erano, prima delle monete, i frammenti di metallo che servivano da denaro. Quindi alla base della parola c’è un unico senso originario: quello di ‘grano’, corpuscolo, elemento di discontinuità, che deriva da quello di ‘grano’, ‘granello di frumento’. Partendo da questo suo centro la parola passa a esprimere, nei suoi usi, concetti anche molto diversi. Al senso profondo, dai contorni imprecisi, la mente umana riesce ad associare diverse idee più particolari(2).

Tratta dell’argomento anche Marcello Aprile: «Dalla stessa base latina si formano quindi due derivati distinti, ma normalmente essi hanno significati molto diversi, a volte tanto diversi che al parlante comune sfugge qualunque possibile connessione (…) Anche foce (del fiume) e fauce (parte del corpo umano), posa (delle pietre) e pausa (in qualcosa che si sta facendo), pesare (misurare un peso) e pensare (un’operazione astratta), spalla (parte del corpo umano) e spatola (oggetto per lavorare) non hanno altro che una remotissima connessione tra loro, un legame così lontano che sfugge ai più e che comunque può essere ricostruibile solo dopo un’attenta valutazione (…) pieve plebeparola eparabola risalgono alla stessa origine, ma le vicende di queste forme sono state diverse» (3).

Perché oggi ci troviamo questi problemi? Sinceramente non lo so: in cuor mio – perdonatemi l’irriverenza – ho il convincimento che, avendo a che fare con le parole, ci siamo sentiti pian piano autorizzati a giocare al «piccolo linguista» senza mai chiedere lumi, nel corso di questi ultimi cent’anni, a chi di lingua s’intende veramente e così ci siamo dati alla pazza gioia tacciando di equipollenza parole che, invece, hanno avuto un antenato in comune ma che oggi svolgono due incarichi diversi.

L’insegnamento che ci dànno questi autori (ma lo stesso è stato scritto anche da altri linguisti) non lascia nessun dubbio sull’esattezza del metodo sempre seguito dalla Sibilla e che, come ho ampiamente documentato, è la guida che ci dà la linguistica.

L’etimologia è una scienza bellissima, ricca di sorprese e di curiosità, di insegnamenti. Essa va però vista e studiata come una disciplina a sé stante non come «prova» di equipollenza fra due vocaboli odierni.

Il nostro parere si sposa dunque con quello dei linguisti: se due vocaboli, oggi, hanno due usi diversi, due significati tanto diversi che i parlanti fanno fatica ad avvedersi che derivano dalla stessa parola, allora non si ha equipollenza: «seguire» una ragazza per strada non è la stessa cosa di «eseguire» un concerto, mentre «occhiali» sono equipollenti con «occhi» perché i parlanti si rendono conto che ancora oggi gli occhiali servono per gli occhi.

Come corollario, si pone poi il problema dei prefissoidi e dei prefissi. I prefissoidi (come extra-, iper-, mega-, ecc.) sono da tutti considerati equipollenti; i prefissi (come in-, con-, ecc.), invece, si considerano non equipollenti con le preposizioni o le parti del discorso da cui etimologicamente derivano (in, con, ecc.). Allo stesso modo si trattano suffissoidi e suffissi: i suffissoidi (come ad esempio -grafia, -mania, ecc.) sono considerati equipollenti per lo stesso motivo dei prefissoidi; mentre con i suffissi (come -aio, -are, -abile, ecc.), come per i prefissi, gli enigmisti non riscontrano equipollenza.

Scrive Ele, che ho interpellato nella sua duplice qualità di linguista e di enigmista: «Mentre i prefissoidi conservano almeno «un poco» di contenuto semantico, similmente alle parole autonome, e quindi sentiamo – come enigmisti e come parlanti comuni – che questo contenuto è equivalente, equipollente, tra la prima e la seconda lettura, questo non accade per i prefissi, perché non hanno più, per i parlanti, contenuto semantico, oppure hanno significato diverso dalla preposizione corrispondente: in- di «in-cartare» non viene sentito legato alla prep. in; e in- di «in-sensibile» addirittura non c’entra con in preposizione etimologicamente.

In conclusione, riporto una concisa definizione di Ele in merito al tema di questo articolo: «Due parole sono equipollenti se la loro relazione non è del tutto fortuita etimologicamente o non pare del tutto fortuita agli occhi del lettore/solutore».

La Sibilla considera quindi due parole non equipollenti se, pur scrivendosi in parte con le stesse lettere

a) non sono collegate etimologicamente;

b) il lettore medio non intuisce che vengano dalla stessa radice etimologica.

È questo il nostro manifesto e questa sarà la risposta che daremo a tutti coloro (soprattutto ai neofiti che per fortuna continuano ad arrivare sulle nostre pagine) che ci chiederanno se due termini sono o meno equipollenti, perché la nostra opinione si sposa perfettamente con i dettami della logica e della linguistica

1 Giacomo Devoto, Avviamento alla etimologia italiana, Milano, Mondadori, 1968

2 Edoardo Lombardi Vallauri, Parlare l’italiano, Milano, I Classici del Corriere della Sera, 2017

3 Marcello Aprile, Dalle parole ai dizionari, Milano, I Classici del Corriere della Sera, 2017

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